Primo piano di Momò | Marina Corrente
Ciao! Mi chiamo Marina e sono una social media manager & community manager.
Abito a Salerno, ma grazie al web posso raggiungerti in ogni angolo di mondo... "Momò"!
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PINKWASHING

Cos’è il Pinkwashing e perché è indispensabile sapere che esiste?

L’igiene è una cosa seria. Lo abbiamo imparato in pandemia (spero). Nella comunicazione non funziona esattamente allo stesso momòdo.

Da Wikipedia:

Pinkwashing è una parola formata dalla crasi tra "pink", rosa, e "whitewashing", imbiancare o nascondere. Il “pink” indica per convenzione (sì, ancora) le questioni legate al genere femminile.

Dunque, fare pinkwashing significa attuare forme di brand activism di pura facciata che mirano a nascondere fatti e misfatti aziendali legati alle cause femministe, femminili e di parità di genere.

Abbracciare una causa, attivarsi e dedicare tempo e risorse NON deve mai essere un’attività di marketing che mira al miglioramento della brand reputation o al furbetto posizionamento di brand.

Piuttosto si può (“può” non è un obbligo) scegliere di prendere posizione e assumersi la responsabilità sociale verso cause, iniziative e progetti di interesse comunitario.

In breve: una mano di rosa sulle grafiche, un fiocchetto sul logo e uno sbaffo di rossetto sulla faccia NON significa fare brand activism.

Ti serve di più: allerta spoiler!

  • Coerenza
  • Specificità
  • Azione
  • Trasparenza

Conoscere la differenza tra brand activism e pink/green/rainbow/qualsiasicosa washing è fondamentale. Perché?

Il termine pinkwashing viene usato per la prima volta nella sua attuale accezione nel 2002 dalla Breast Cancer Action organizzazione attiva negli USA a supporto delle donne malate di cancro al seno.

L’organizzazione definiscice così il pinkwasher:

«organizzazione o compagnia che sostiene di avere a cuore la lotta al tumore al seno e per questo promuove prodotti con il fiocchetto rosa, ma allo stesso tempo produce e/o vende prodotti che contengono sostanze chimiche connesse alla malattia».

In effetti, l’ormai noto pink ribbon (il fiocchetto rosa simbolo della lotta contro il tumore al seno) era comparso magicamente ovunque, un fiorire di prodotti in edizione limitata con packaging rosa che più rosa non si può

Peccato che l’alcol o il pollo fritto-nel-fritto non fossero proprio un toccasana per il cancro al seno.

Breast Cancer Action entra – giustamente – in action e lancia la campagna

Think Before You Pink.

Perché è giusto incazzarsi? Perché sì.

Questo è pinkwashing:

KFC-Estelauder-pinkwashing-esempi
esempi di pinkwashing
KitKat-pinkwashing

Fare storytelling strumentale creando narrazioni deviate e devianti è un problema. Un problema che riguarda tutti e tutte. La questione viene spiegata molto bene qui.

Ricordi la campagna del Nastro Rosa 2015?

nastro-rosa-2015-pinkwashing

Magari con "buone" intenzioni ma si tratta di una rappresentazione sessualizzata e sensuale del problema del cancro al seno.

Ma allora che si può fare? "Non siete mai contente"?

C’è modo e modo.

Una delle maggiori cause del pinkwashing è l’ignoranza.

Ma anche la superficialità e solo infine per fare un’azione di marketing. Ti stupirebbe sapere quanto sia grande l’approssimazione con cui vengono concepite certe comunicazioni di brand. 

Le aziende sono entità complesse, spesso perse nei meccanismi operativi e annebbiate dall’egocentrismo di chi “comanda” (uomo, donna, gender fluid che sia). 

Personalmente mi sono trovata a gestire tante situazioni “limite” e mi sono spinta a fare campagne di attivismo solo in due casi:

  • Quando ho avuto la completa fiducia del CEO 
  • Quando il CEO non ne sapeva nulla

In entrambi i casi ho avuto tempo e spazio per fare le cose per bene. Scegliere le parole giuste, le immagini giuste, i modi giusti. 

In entrambi i casi l’ho fatto assumendo il pieno controllo (e responsabilità) di quello che sarebbe uscito e sempre a titolo gratuito. Per mia scelta.

Oh, la coerenza o c’è o non c’è. 

La mia fortuna (scelta) è di operare nel settore comunicazione da freelance. Ciò implica tante seccature ma ha anche un grande irrinunciabile vantaggio: la libertà.

Molto spesso la libertà si traduce in scarso fatturato e in lunghi periodi in cui tirare la cinghia perché – credimi – non è facile abbandonare progetti e collaborazioni, ma per me è impossibile portare avanti collaborazioni che “ignorano” certi valori.

 Vuoi fare brand activism?

Contattami pure. Ma prima chiediti se lì da te è tutto a posto.

Non è che vuoi schierarti a sostegno della causa contro la violenza di genere e poi sottopaghi le tue dipendenti?

Non è che vuoi supportare i centri antiviolenza e poi tolleri atteggiamenti e linguaggi violenti, sessisti e umilianti nella tua azienda?

Cambiare si può, migliorare pure. Ma devi fare un lavoro che parta dall’interno prima di “uscire” altisonanti proclami.

Da dove partire per fare brand activism?

Dalle basi, dalle cose semplici: fai informazione e metti da parte il branding.

Contatta, per esempio, una delle tantissime associazioni e chiedi loro di cosa hanno bisogno. Ascolta. Dai voce a loro e non improvvisare.

E ricorda, puoi bussare qui

Cos’è la violenza di genere?

È una domanda da fare e la risposta non è scontata. Per lo più la violenza di genere viene associata alla violenza fisica: picchiare, mettere le mani addosso o uccidere una donna.

No. Non solo.

La violenza di genere è la violenza perpetrata contro le donne ed è basata sul genere. È ritenuta una violazione dei diritti umani.

Esistono varie forme di violenza e possono essere vittime di violenza donne di ogni estrazione sociale, livello culturale e di ogni parte del mondo. In questo video le operatrici di Differenza Donna te lo spiegano per bene. Guardalo momò.

L’ironia della sorte.

Come in tutte le cose del marketing, se fai una promessa e non la mantieni poi so’ problemi.

Quando si tratta di una spedizione arrivata in ritardo magari puoi mandare uno sconto, chiedere scusa e cospargerti il capo di cenere. Il danno in effetti è riparabile. Magari perderai la fiducia del cliente e ti sconsiglierà alla sua cerchia.

Se però ti ergi a paladino/a dei diritti umani, dell’ambiente, della salute e del benessere sociale ma poi si scopre che è tutta fuffa… quanto credi si incazzeranno le persone?

L’ambiente digitale amplifica naturalmente ogni cosa. Sognavi la “viralità”? Ti assicuro che beccarsi una shitstorm (o peggio)  non è una bella cosa e può avere ripercussioni a lungo termine.

Qui mi sono focalizzata sul pinkwashing ma esiste un termine più generale che indica tutte quelle attività fatte per attirare simpatie e profitto sfruttando cause sociali rilevanti: il woke washing.

Ecco. Non farlo.

Parti dal basso.

Qualche consiglio te l’ho già dato prima, ne aggiungo un paio testati da me-Momò-medesima:

  • Organizza degli incontri in azienda di ascolto, informazione e, ti prego, non farli in pausa pranzo!
  • Metti dei volantini informativi negli spazi comuni. La tua collega sempre sorridente potrebbe essere nei guai e sarà ben felice di scoprire che esiste un’alternativa.

Ti pare poco? 

Se ti pare poco inizia a farlo momò.

Crea un ambiente sicuro, rispettoso e inclusivo.

Essere accolta dal capo delle risorse umane con un bel: "ma che ti è successo ai capelli?" è una cosa brutta, umiliante e pericolosa.

Chi può scapperà. Chi non può perché magari pensa di non avere alternative perché è donna, sulla quarantina, con famiglia (ma chi ti assume?)  annuirà con un sorriso di circostanza e intanto si sentirà morire dentro.

Poi c’è chi risponderà: “ma ti sei visto tu?” E allora entrerà nel mirino etichettata come “la rompipalle”, “l’isterica”, “la femminista” come poi fosse un insulto boh, “con quella non si può scherzare”.

Questi sono solo due miseri esempi che mi sento di condividere perché li ho vissuti sulla mia pelle. Ma, come ho già detto, io sono quella “fortunata” che se ne va.

Ecco perché insisto. Per quelle donne che devono restare e hanno diritto di stare bene, di essere valutate non sulla base del genere a cui appartengono ma di quello che fanno o non fanno.

Avere pari opportunità significa esattamente quello che significa. Appartenere a un determinato genere non dovrebbe più rientrare nei valori che influiscono sulle possibilità.

I numeri non bastano.

La conta dei femminicidi non conta abbastanza. I numeri servono (non ditelo a me che ci campo) ma non bastano.

Innanzitutto bisognerebbe saperli interpretare.

I numeri hanno un problema di fondo, spersonalizzano. Sono simboli che indicano quantità, semplificano, vendono, ma non sempre sono supportati dalla corretta narrazione.

Centosei, centosette, centomila. Okay, sappiamo contare e purtroppo anche distorcere la realtà.

Se iniziassimo a dare nomi e volti alle donne morte sicuramente non basterebbero i caratteri disponibili per un post social o un articolo di giornale. Ma cambierebbe un pochino l’impatto.

C’è un numero che conta: il 1522 

Si legge quindiciventidue.

È il numero nazionale antiviolenza e stalking. Purtroppo ancora poco conosciuto. Il 1522 è un servizio pubblico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. Il numero, gratuito è attivo 24 ore su 24, accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking.

Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522.

Il numero è gestito dall’associazione Differenza Donna ONG.

Ecco cosa puoi fare momò: diffondi questo numero.

1522 numero antiviolenza e stalking

💜 Marina Momò

Alcuni link di approfondimento

https://www.insidemarketing.it/stereotipi-di-genere-in-pubblicita/

https://www.lafeltrinelli.it/brand-activism-dal-purpose-all-libro-philip-kotler-christian-sarkar/e/9788820397913?lgw_code=50948-B9788820397913&awaid=9507&gad_source=1&gclid=Cj0KCQiApOyqBhDlARIsAGfnyMqw3v2VtREFQnk629nTerBUkJahzdMmrAUdE-5pv2VCCFnQvOo8R94aAl-xEALw_wcB&awc=9507_1700493814_92017c464ef4afd8c769a9a983d17e62

https://www.theguardian.com/world/2012/feb/15/komen-pinkwashing-problem-planned-parenthood

Pink is not the problem. The problem is Pinkwashing.
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